La povertà in Italia è un problema serio. Cresce il numero di famiglie che si trovano in questa condizione e la distribuzione della ricchezza nazionale è sempre più squilibrata. Per la sinistra dovrebbe rappresentare la questione centrale ma non è affatto in cima alla lista delle priorità.
Eppure contrastare l'esclusione sociale e la povertà è possibile. In particolare attraverso l'introduzione del reddito minimo garantito. Ma il discorso su questo tema deve prendere piede, diventare popolare e unificante. E, soprattutto, acquistare concretezza vincendo i dubbi e la confusione sulla sua fattibilità.
1. Le disuguaglianze in Italia
Per avere un'idea della dimensione del problema della povertà in Italia basta guardare all'andamento
dell'indice di Gini, il coefficiente comunemente usato per misurare
la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.
Era diminuito nel dopoguerra fino alla
fine degli anni Settanta e, nonostante un aumento a metà degli anni
Ottanta (nell'era craxiana) è sceso ancora fino a toccare il suo
minimo all'inizio degli anni Novanta. Poi l'impennata in coincidenza con la crisi
monetaria del '92 e, dopo un periodo di stabilità, l'ulteriore
crescita negli ultimi anni di crisi.
Sta di fatto che oggi l'Italia è, tra
i maggiori paesi OCSE, quello con il più alto indice di
disuguaglianza dopo gli USA. Nella UE è superata da Grecia e Spagna,
che più dell'Italia hanno risentito della crisi, e da alcuni Stati
dell'Est (Bulgaria, Romania e Paesi Baltici) che tardano a attutire
gli effetti del passaggio a un'economia di mercato.
2. Le politiche adottate e gli
effetti sulle disuguaglianze
Del resto, le politiche adottate dai
governi italiani, in particolare a partire dalla caduta dell'ultimo
governo Berlusconi nel 2011, col succedersi dei governi “di larghe
intese” di Monti, Letta e Renzi, che hanno visto una presenza determinante del
PD, sono andate in direzione opposta rispetto a quanto sarebbe stato
necessario per contrastare la crescita delle disuguaglianze.
Ne abbiamo una riprova dalla lettura
del "Rapporto Gini" finanziato dalla UE nell'ambito del Programma
Horizon 2020, pubblicato all'inizio del 2014. Queste, nelle
conclusioni del Rapporto, le condizioni necessarie perché le misure
di politica economica e sociale risultino efficaci nel contrastare la
povertà e le disuguaglianze:
“Un welfare ampio che investa
sulle persone, stimolandole all'attività e proteggendole se
necessario con i loro figli. Essendo la mancanza di lavoro nel nucleo
familiare la causa più importante di povertà, misure per offrire
nuove occasioni di impiego e misure di politica attiva del lavoro in
genere affiancate, per i profili a più bassa scolarità, esperienza
e capacità, da un rafforzamento delle reti di protezione sociale.
Misure per contrastare all'origine i processi di esclusione, bassi
guadagni e limitata mobilità verticale, evitando che l'insieme delle
misure di carattere strutturale siano finanziate a spese degli
interventi per alleviare direttamente povertà e disuguaglianze quali
i sussidi, nonché la rete dei servizi (cura dell'infanzia,
istruzione, alloggi, sanità, assistenza alle persone). Quanto
all'istruzione, misure per estendere l'età dell'obbligo e per
promuovere economicamente l'accesso all'istruzione di terzo grado,
puntando anche all'autonomia nella scelta dei percorsi formativi
(mentre hanno un effetto incerto le misure per aumentare l'autonomia
delle istituzioni scolastiche laddove acuiscono le differenze tra gli
istituti rischiando di lasciare indietro gli individui con un più
debole background). Infine misure per ridurre la stratificazione in
base alla provenienza sociale della partecipazione al voto.”
L'elenco delle misure adottate negli
ultimi anni che vanno in direzione diametralmente opposta è ben noto
a chiunque si occupi, sia pure marginalmente, di questi temi,
nonostante l'impegno sistematico della “grande” informazione,
sempre meno indipendente, per oscurarne il significato e gli effetti
attesi:
- tagli ai trasferimenti alle istituzioni decentrate titolari della spesa per il welfare e i servizi
- “riforme” della scuola finalizzate esclusivamente a tagliare sul finanziamento alla scuola pubblica per aumentare il peso del finanziamento pubblico dell'istruzione privata e del finanziamento privato di una parte selezionata dell'istruzione pubblica
- “riforme del lavoro” destinate a comprimere i redditi dei lavoratori dipendenti attraverso la diffusione dei rapporti precari e la liberalizzazione dei licenziamenti e di conseguenza ad estendere la disoccupazione, specialmente dei più giovani,
- misure di carattere fiscale (bonus e incentivi) rivolte alla fascia mediana di reddito senza toccare gli individui al disotto della soglia di povertà e senza escludere dal beneficio gli appartenenti a nuclei familiari a reddito elevato, perfino appartenenti al decile più alto nella distribuzione del reddito,
- riforme istituzionali e elettorali tese a ridurre la partecipazione e la rappresentanza.
A questo elenco si dovrebbe aggiungere
quello, ancora più lungo, delle misure che dovevano essere adottate
ma non lo sono state. Ci si può limitare a ricordare l'assenza di
misure di politica di sviluppo dirette a orientare gli investimenti
verso le produzioni di beni e servizi (nonché i processi produttivi)
che sono suscettibili di creare maggiore ricchezza. E, per altro
verso, l'assenza di misure “ per alleviare direttamente povertà
e disuguaglianze quali i sussidi”
(vedi sopra). Tra queste, in particolare, l'assenza di un reddito
minimo garantito. Che l'UE raccomanda agli Stati membri di adottare,fin dal lontano 1992, ben prima del Rapporto Gini!
3.
La questione del reddito minimo garantito
In
questa legislatura il tema è stato affrontato con due proposte di
legge dai gruppi M5S e SEL. E' stato anche oggetto di attenzione, a
fasi alterne, da parte degli organi di informazione, secondo alcune
costanti: confusione tra le diverse accezioni dell'istituto (reddito
di cittadinanza, reddito di inserimento sociale, sussidio di
inclusione attiva, reddito minimo garantito in senso stretto);
assenza di riferimenti puntuali alla sostanza delle proposte; estrema
imprecisione sugli oneri finanziari.
Per
un tema di questa portata sarebbe invece necessaria la massima
chiarezza.
Le
proposte di cui si tratta riguardano tutte l'istituzione di un
sussidio destinato ai maggiorenni il cui nucleo familiare sia in
condizioni di bisogno, a condizione che partecipino attivamente a
programmi di inserimento lavorativo. Con queste precise
caratteristiche è già in vigore nella Provincia Autonoma di Trento
ed è in discussione nelle Regioni Friuli V. G. e Valle d'Aosta. Si
rivolgono dunque tutte a una medesima platea, costituita (2013) da
1.981.291 famiglie senza reddito da lavoro o da pensione (7,7% del
totale, in crescita rispetto al 6,9% del 2012), esposte pertanto alle
maggiori criticità sul mercato del lavoro e al rischio di trovarsi
in una condizione di povertà relativa.

In
sintesi secondo queste stime, come era lecito attendersi, la
condizione di bisogno (in termini di povertà relativa) affligge chi
cerca lavoro senza godere di alcun sussidio in misura più che tripla
(40% contro 12,6%) rispetto alla media delle famiglie italiane.
4.
L'onere per lo Stato e le coperture
Se
stiamo alla stima qui effettuata, l'onere relativo a un sussidio di
600 € mensili per dodici mesi corrisposto a 660.000 persone è pari
al massimo (sussidio intero per un anno intero) a 4,752 mld €.
Una
parte del mondo politico (nonché degli opinionisti e dei tecnici a
sostegno) ipotizza cifre molto superiori ma si basa su un'ipotesi di
sussidio “di cittadinanza”, corrisposto a tutti i cittadini,
senza tener conto del reddito familiare. Altre stime riguardano una
platea comprendente anche i destinatari attuali delle misure di
sostegno per i disoccupati (Assicurazione Sociale per l'Impiego e
simili), che potrebbe in effetti rappresentare il punto di arrivo di
una più generale riforma del welfare lavoristico: il fabbisogno
salirebbe a circa 17 miliardi ma verrebbero così convertite le
risorse attualmente destinate alle politiche passive (sussidi ai
disoccupati), che si aggirano intorno ai 12 mld € (dato 2013): una
cifra che rappresenta proprio il fabbisogno aggiuntivo rispetto alle
ipotesi in discussione (che escludono gli attuali beneficiari) per
giungere a realizzare, a regime, un sistema fino in fondo
universalistico.
Una
ulteriore verifica della congruità della stima effettuata si può
ottenere facendo riferimento alla concreta esperienza in corso nella
Provincia Autonoma di Trento, dove l'onere a consuntivo risulta pari
allo 0,1% circa del PIL provinciale. Fatte le proporzioni tra
l'incidenza della povertà relativa (4,9% TN, 12,6%
Italia) si può ipotizzare che il fabbisogno sia pari allo 0,25-0,3%
del PIL nazionale e che sia dunque realistica una stima attorno ai
5mld €.
Le
ipotesi di copertura per questa cifra non devono dunque spaventare e
possono essere svariate. Tra tutte vanno segnalate quelle
maggiormente coerenti con l'ispirazione alla base della misura.
Si
può ricorrere, da un lato, all'abrogazione del finanziamento della
Cassa in deroga (sussidio per perdita di lavoro a carico del fisco,
non coperto da contribuzione delle imprese) che non sarebbe più
necessario e che il decreto legge approvato in questi giorni dal
Consiglio dei Ministri fissa in 1 mld. Dall'altro, si può procedere
a una revisione della platea dei beneficiari del “bonus Renzi” di
80 € mensili che vada in direzione di un'erogazione più selettiva
in relazione alle effettive situazioni di bisogno. Si tratterebbe di
condizionare il beneficio a a un limite di reddito del nucleo
familiare di appartenenza. Il risparmio conseguibile può essere
stimato considerando che tra le famiglie, con più di un componente,
in cui è presente almeno un lavoratore dipendente, quelle che non si
trovano in situazione di criticità per entità del reddito da lavoro
e tipologia del rapporto (precario) sono stimate da Italia Lavoro
(Rapporto annuale "Famiglie e Lavoro" 2014) nel 29% del totale. Se si ipotizza che condizionando
il bonus al reddito ISEE si verifichi una riduzione di questa entità
della platea dei destinatari del bonus si risparmierebbero poco meno
di 3 mld €. Infine, per l'ulteriore miliardo di copertura mancante,
tra le varie ipotesi in campo si potrebbe scegliere di estendere
all'intera platea dei contribuenti sopra i 90.000 € di reddito
annuo il “contributo di solidarietà”
applicato ai soli pensionati, sotto forma di aumento dai 2 ai 6 punti
(per lo scaglione più alto di redditi, sopra i 300.000 €)
dell'aliquota IRPEF.
5. Conclusione
In
Parlamento è in corso l'esame delle proposte di legge in materia di
reddito minimo garantito. E' possibile, in quanto ne sono date tutte
le condizioni di fattibilità, decidere una volta per tutte che anche
in Italia si può compiere un passo concreto in direzione della lotta
alla povertà e all'emarginazione sociale.
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